MIMÌ E LE RAGAZZE DELLA PALLAVOLO
Sono un autodidatta e il mio strumento preferito è sempre stato la chitarra. Nel 1979, nella speranza di ampliare le mie capacità creative e per migliorare la qualità dei provini, comprai una tastiera elettronica e feci traslocare il pianoforte di famiglia nell’abitazione di via Proba Petronia. In un paio d’anni imparai a mettere le mani sui tasti quel tanto che mi consentiva di accompagnarmi mentre cantavo.
Ho scritto circa duecento canzoni di cui ho composto musica e parole. Iniziai nel 1960 senza l’aiuto di uno strumento inventando la prima melodia per una delle poesie che mi venivano di getto e che poi ricopiavo in bella calligrafia su un quaderno con la copertina rossa. Nel 1990, trent’anni dopo quell’esordio, scrissi la mia ultima musica dedicandola alla nonna tenerissima con cui avevo passato l’infanzia. Di questa passione che avevo tentato di trasformare in un lavoro che mi desse da vivere non sarebbe rimasta traccia al di fuori del contesto familiare e della cerchia degli amici se un pomeriggio d’estate del 1982 Olimpio non si fosse ricordato di un brano che gli avevo proposto mesi addietro per la sigla di “Angie Girl”.
Per quel cartone era stato lanciato uno dei soliti concorsi e io avevo composto un motivo rock che nel ritornello si apriva in un andamento più romantico senza cambiare il ritmo. Temendo di essere in ritardo rispetto agli altri concorrenti e rischiando una figuraccia per i miei limiti come pianista chiesi a Olimpio se potevo fargli ascoltare al volo la mia “Angie” e la cantai in un grossolano finto inglese servendomi del pianoforte che stava nella stanza di un suo collega. Miracolosamente filò tutto liscio, non sbagliai nemmeno un accordo. Ma ero arrivato fuori tempo massimo, la scelta della sigla era pressoché definita. A Olimpio tuttavia il mio piccolo brano rock era piaciuto. Forse la carica emotiva che avevo messo nell’esibizione dal vivo lo aveva colpito e convinto più di quanto avrebbe potuto fare un provino realizzato a regola d’arte con i cori e tutto il resto. Così mi chiese di preparargli una cassetta. Poteva tornare utile in un’altra occasione.
L’occasione arrivò da lì a un paio di settimane con un nuovo concorso per “Il libro Cuore”, la serie che raccontava le storie nate dalla penna di Edmondo De Amicis e predilette da tante generazioni di bambini. Scrissi il testo e lo cantai sulla base di “Angie Girl”, che nel frattempo avevo registrato per conservarla in archivio con tutte le altre canzoni. Niente da fare. La cassetta arrivò in tempo ma fui battuto da Riccardo Zara e dai suoi “Cavalieri del Re”. Rimasi deluso ma non ne soffrii più di tanto. Avevo quasi fatto l’abitudine a vedermi fallire come autore di musica, mentre la mia attività di paroliere viveva un periodo fortunato. Negli ultimi due anni erano stati pubblicati ventidue dei miei testi. Con Candy Candy e Lulù avevo provato l’emozione della Hit Parade e Sampei e Super Dog Black erano appena approdate in sala di registrazione. Non era giusto sentirsi uno sfigato. Infatti dopo pochi giorni Olimpio decise che la mia “Angie Girl”, invano riciclata per “Il libro Cuore”, sarebbe diventata la sigla di “Mimì e le ragazze della pallavolo”.
Arrivai in via Tiburtina emozionato e incredulo che una casa discografica avesse stabilito di spendere dei soldi scommettendo sulle mie capacità di musicista. Guardavo la videocassetta di Mimì, prendevo appunti e ogni tanto pensavo “Questo testo non lo posso sbagliare. Ho scritto per tutti e per ogni genere di musica e adesso sarò pur capace di scrivere una cosa per me! Dovrà essere perfetto…”. Mimì, ragazze, voli, schiacciate, grida, fiocco rosso, braccia, la rete, battute, vittoria, squadra, lancio, passaggio, saette… Cercavo di non perdere un fotogramma, annotavo più veloce che mai e non vedevo l’ora di essere al tavolo di lavoro per scrivere finalmente un testo su una mia musica.
Non ricordo se a cose fatte il testo di Mimì lo giudicai perfetto, ricordo che dopo avervi apportato gli ultimi abbellimenti non ebbi più esitazioni, salii in macchina e tornai in RCA per consegnarlo a Olimpio. Anche se sapevo che non sarebbe stato Dougie a cantare realizzai sia le strofe che l’inciso pensando alternativamente alla sua voce, che sa essere romantica e allegra, e a quella morbida e accattivante di Georgia Lepore. Il brano era stato affidato a lei, che a quattordici anni nel coro “I nostri figli” di Nora Orlandi aveva cantato da solista il ritornello dell’“Ape Magà” e due anni dopo, nel 1981, aveva portato al successo “Conan”, una delle più amate tra le mie sigle. Oltre questi particolari che me la rendevano familiare, di Georgia, che non avevo mai incontrato, conoscevo le dolcissime esecuzioni di “Peline Story” e “Fiordiligi” e i commenti che la descrivevano come una brava attrice già molto esperta di doppiaggio.
Mike Fraser e Douglas Meakin si sarebbero occupati dell’arrangiamento e della realizzazione e con Dave Sumner, Mick Brill e Marvin Johnson avrebbero ricomposto in sala di registrazione la formazione tipo dei Rocking Horse, con Mike alle tastiere e Dougie e Lorenzo Mainardi ai cori. Più Rocking Horse di così!
Mi sentivo elettrizzato e carico di tutte le positività del mondo. Quanto avevo atteso quel momento! Vedere il proprio nome su un disco dà una grande emozione e per me la prima volta era stata come avere la prova della mia stessa esistenza in vita, come autore ovviamente. Ma ora grazie a “Mimì e le ragazze della pallavolo” venivo riconosciuto anche come musicista e mi sembrava che in quel pezzo fossero riunite idealmente tutte le note, tutte le melodie create a partire da un lontanissimo pomeriggio del 1960 fino a quella fantastica estate del 1982. In quale studio avremmo registrato? In RCA? Al Telecinesound? Al Trafalgar o al Titania? E quando? Il mese di luglio era appena iniziato, ma i tempi di lavorazione sarebbero stati condizionati dall’evento che dalla metà di giugno stava monopolizzando l’interesse della maggioranza degli italiani: i mondiali di calcio in Spagna e l’eventuale incredibile finalissima dell’Italia per il titolo di campione del mondo già fissata a Madrid per il giorno undici. Si sa che in occasioni come questa, con gli azzurri che scendono in campo l’Italia tutta si ferma a eccezione dei pronti soccorsi e di pochi altri servizi di pubblica utilità. Gli uffici e le fabbriche si svuotano, le saracinesche di molti negozi vengono abbassate e negli esercizi rimasti aperti appaiono magicamente, tra gli scaffali o sopra i banconi, radio e televisori portatili. Le città assumono la fisionomia del giorno di ferragosto, con i marciapiedi deserti e le strade attraversate da rare automobili, i motori imballati e i clacson strombazzanti, in corsa verso casa prima che l’arbitro fischi l’inizio del gioco.
Il calendario prevedeva la finalissima per l’undici del mese, di domenica. Battuta l’Argentina nei quarti di finale, restava l’incognita dell’incontro di lunedì 5 con il Brasile. Se si superava il turno, ci attendevano le semifinali dell’8 che cadeva di giovedì. E quale Mimì, con o senza le sue ragazze della pallavolo, avrebbe mai potuto impedire a Olimpio Petrossi, a Mario Cantini, ai fonici, ai recordisti e agli stessi Rocking Horse, inglesi e scozzesi di nascita ma moralmente tenuti a tifare per l’Italia, di perdere un solo attimo di un campionato che partita dopo partita rendeva sempre più vicina e possibile la straordinaria emozione della medaglia d’oro? La decisione fu netta: avremmo rinviato la registrazione di “Mimì” al giorno dopo la finalissima. Anche la ITB, che aveva importato il cartoon dal Giappone, avrebbe preso atto di quella risoluzione irrevocabile.
Con tre reti contro una, segnate da Rossi, Tardelli e Altobelli, l’Italia vinse la Coppa Rimet e il giorno seguente in tutti i posti di lavoro anche chi aveva le occupazioni più faticose, modeste o ripetitive visse probabilmente il lunedì più leggero e gioioso della sua vita da operaio o da impiegato.
Per “Mimì” fu scelto lo studio C della RCA. Avrei potuto mettermi in ferie e seguire il mio evento personale minuto per minuto fin dai primi quattro colpi di bacchetta di Marvin, invece preferii essere presente solo dalla metà del secondo giorno, martedì 13, quando Georgia Lepore avrebbe cantato sulla base ormai completa. Riesco a spiegare il mio comportamento con una specie di pudore: non volevo disturbare il lavoro dei musicisti e dei tecnici che avrebbero rivestito la mia melodia di armonie e di tutte le sonorità che servivano. Temevo di sentirmi di troppo e di condizionarli con la mia presenza. Ognuno di loro doveva esprimersi liberamente come sempre, come se stesse suonando una canzone di Douglas Meakin e Mike Fraser.
Aspettai Mike, Dougie e Olimpio, alla fine del primo turno, nel bar della RCA. Era ora di pranzo e, dopo un aperitivo, andammo in una trattoria con i tavoli all’aperto sulla via Tiburtina, nella direzione per Tivoli. Ricordo il sole su di noi seduti davanti agli spaghetti al pomodoro, le macchine in fila sulla strada a poca distanza, il sapore della pasta misto a quello della musica che avrei ascoltato non più tardi di un’ora e che tentavo di anticipare con l’immaginazione mentre i miei amici discutevano del goal di Paolo Rossi, del boato che era esploso in tutte le case e della gente che si era affacciata alle finestre con il tricolore urlando di gioia, pazza di felicità come me in quel momento.
Fu un pasto veloce. Il tecnico del suono ci attendeva in regìa con il giornale aperto alle pagine dello sport. Con lui c’erano una bella ragazza con lunghe trecce e un signore sui quarant’anni dall’aspetto serio, i capelli corti e i baffi, Georgia Lepore e suo padre.
Olimpio dette alcune disposizioni e il fonico avviò il nastro a ventiquattro piste. Arrivarono dal silenzio gli arpeggi del piano Fender di Mike regolato su un timbro molto dolce, quasi uno xilofono sulle ottave alte. In sottofondo, leggero come un fruscio, un tappeto di campanelli che sfumava all’ingresso delle voci armonizzate di Dougie e Lorenzo, “Mimì… sogni la vittoriaaaaaa…”. Un solo colpo del basso di Mick Brill e partì il riff vincente dalla chitarra di Dave sostenuta dalla batteria di Marvin e dal piano di Mike in contrappunto. Non potevo sperare in niente di meglio. Si trattava di rock e sound “made in Rocking Horse” al cento per cento, per oltre quattro minuti.
Seguita dallo sguardo attento e protettivo del padre, Georgia andò nella grande stanza al di là del vetro. Rivolta verso di noi sistemò il testo sul leggìo, mise la cuffia e con un cenno avvisò di essere pronta. Sembrava distaccata: il viso non lasciava trasparire emozioni, la calma con cui affrontava la prova rischiava di essere scambiata per una specie di indifferenza. L’interpretazione invece risultò felice e musicalissima, velata a tratti di una sensualità pigra e innocente, senza incertezze o sfasature di tempo, senza il minimo calo di tono. Poi sull’ultimo verso dell’inciso piombò il rush straripante della chitarra di Dave che andava a sfumare sulla fine di una registrazione e di un giorno per me indimenticabili.
Conservo molti ricordi di quell’esperienza unica e irripetibile: ricordi di carta, ricordi del cuore, ricordi su nastro. Una copia del testo dattiloscritto con la frase aggiunta a penna “13 luglio 1982 beautiful day”. Una seconda copia dove Olimpio sotto il titolo e dopo il mio nome volle specificare di suo pugno: “PAROLE E MUSICA!!!(?)”, intendendo forse suggerire con quel punto interrogativo messo tra parentesi dopo i tre esclamativi “ma l’hai scritta proprio tu?” e che a quel miracolo non ci credevo nemmeno io. Il foglio con gli appunti presi in RCA guardando il trailer. La sinopsi che condensava in quarantasei parole i primi ventitré episodi del cartone animato: “Nel liceo femminile di Tacibana c’era una volta una squadra fortissima di pallavolo. Ma, a causa di uno spiacevole incidente, il preside ordina di sciogliere la squadra: nonostante ciò, le ragazze appassionate di pallavolo si allenano di nascosto per vincere un torneo tra licei femminili…”. Gli accordi trascritti da Mike. La cassetta con il provino di “Angie Girl”. Le pagine del 13 e 14 luglio dell’agenda su cui annotavo gli impegni, i progetti e i commenti sul mio lavoro artistico. La lunga nota sulla registrazione di “Mimì e le ragazze della pallavolo” terminava riferendo dell’incontro casuale ed emozionante con il mostro sacro della musica leggera italiana Lucio Battisti. “Nello studio a fianco al nostro sta registrando il suo nuovo LP: Lucio Battisti, dopo due anni di silenzio. Ho un vicino di lusso; spero che mi porti fortuna!”.
Oggi da fan posso dire che la vera fortuna fu la possibilità di osservare e fotografare coi miei occhi a un palmo di distanza anche solo per pochi secondi un mito che da anni non appariva in pubblico e custodiva forse troppo gelosamente la sua immagine e la sua vita privata celandosi a tutto il mondo, ai curiosi, ai giornalisti e all’infinita schiera degli ammiratori. Tutto accadde rapidamente. Uscito dalla regìa per scendere al bar, ero nel corridoio quando si aprì la porta dello studio B e lo vidi, solo, assorto in chissà quali pensieri, che andava verso l’ascensore. Milioni di ragazzi e ragazze avrebbero voluto essere al mio posto per adorarlo in silenzio e immobili come feci io o per fermarlo e chiedere un autografo, per toccare un lembo della camicia che fuoriusciva dai pantaloni di tela, forse anche per assorbire nel contatto di un istante un lampo della sua vitalità creativa.
Lo rividi l’estate seguente davanti a un negozio di strumenti musicali, nel quartiere Prati. Curiosavo davanti alle vetrine, beandomi della vista di chitarre, violini, spartiti, pianoforti e metodi per imparare a suonare in sole ventiquattro lezioni e lui mi passò vicino. Ebbi appena il tempo di riconoscerlo prima che si nascondesse dietro un paio d’occhiali scuri e si confondesse tra la gente sul marciapiede di via Fabio Massimo. Girò l’angolo di una traversa e sparì. Rimasi nuovamente stupito per la visione inattesa della sua bella testa piena di ricci. Era in pantaloncini corti e mi sembrò molto appesantito. Un semidio con le sembianze di una persona qualsiasi, quasi trasandata.
A settembre “Mimì” fu pubblicata su disco a quarantacinque giri e conquistò insieme con il cartone una buona dose di popolarità. Fu inserita nei “Tivulandia” della RCA in vinile e in cassetta ed ebbe l’onore di numerose cover a opera di altre etichette, vendendo tra il 1982 e il 1985 circa centoventimila copie. Inspiegabilmente dopo appena un anno dalla sua uscita la RCA e la ITB in occasione della seconda serie di episodi decisero di sostituirla con una nuova sigla firmata da Massimo Cantini (Argante) e cantata ancora da Georgia Lepore. Per quel che ne so questa seconda versione non incontrò un favore superiore alla prima ma ottenne purtroppo l’effetto di attenuare in anticipo il successo della mia “Mimì” e di disorientare le ragazzine e i ragazzini che volevano acquistarne il disco. “Mamma, quale compriamo?” “Mimì e le ragazze della pallavolo o La fantastica Mimì”? Poi, con l’avvento della Fininvest che occupò tutto il mercato delle sigle prematuramente abbandonato dalla RCA e con l’ennesima versione interpretata da Cristina D’Avena e intitolata “Mimì e la nazionale di pallavolo” le vendite della mia si diradarono sempre di più.
Mimì… “Con la divisa blu, col fiocco rosso su, Mimì ragazza tenerezza…” è viva. Nella mia memoria ma non solo. Sono già trascorsi trentatré anni da quando gli azzurri vinsero il terzo campionato del mondo di calcio e da quando un piccolo brano rock composto al pianoforte per “Angie Girl” diventò la più bella e unica soddisfazione di un musicista senza futuro. “Mimì e le ragazze della pallavolo”… un rock suonato alla disperata in presenza di Olimpio e poi cantato in modo perfetto da Georgia Lepore, arrangiato da Mike Fraser e realizzato in studio da cinque più uno straordinari cavalli a dondolo.