SAMPEI
Mike Fraser non partecipava alle riunioni in RCA, quelle con autori e produttori discografici in gara uno contro tutti per una sigla musicale. Non vide nemmeno un fotogramma di “Candy”, di “Lulù”, di “Mysha” o degli altri cartoon. Si fidava di Dougie e di quello che gli avrebbe raccontato. Dougie, quando non lavorava in RAI nel coro di “Domenica In” con Pippo Baudo o in “Pronto Raffaella” con la Carrà, arrivava a casa di Mike alle dieci di mattina e se c’era da comporre una nuova sigla tirava fuori dalla tasca dei jeans il foglio degli appunti presi il giorno prima, iniziava a descrivere la storia, il protagonista, i personaggi principali, l’ambiente, insomma tutto ciò che l’aveva incuriosito guardando la videocassetta e riportava i suggerimenti dati da Olimpio durante la presentazione della serie televisiva.
Quando ancora non possedeva una batteria elettronica, Mike faceva partire il metronomo, accendeva l’amplificatore del piano Fender e iniziava a far girare le mani sulla tastiera cercando un ritmo e una sequenza di accordi iniziali che potessero esprimere le sensazioni evocate dal racconto di Dougie. Messo vicino al microfono, sotto un secchio di plastica che ne amplificava i battiti, il metronomo scandiva il tempo imitando la cassa di una batteria. Nella mente dei due musicisti viaggiavano le immagini del cartoon e il nastro del Revox scorreva lento pronto a cogliere l’estro di un attimo, di una manciata di note capaci di parlare di felicità, di sogno e di avventura. Se le prime battute della melodia nascevano da Mike era Dougie a inserirsi con la voce nel fraseggio musicale. Poi insieme tornavano all’introduzione ritmica, ripetevano il motivo, Mike affinava le armonie e nel crescendo o nella chiusa della strofa Dougie intuiva le note o l’accordo da cui spiccare il volo per lanciarsi nella suggestione dell’inciso.
Seguendo questo schema di lavoro, e ribaltandolo quando era Dougie a trovare un buon inizio di melodia, composero “Sampei“, il brano preferito da Albert Douglas Meakin fra i tanti scritti per i Rocking Horse. Non sempre però le cose filavano lisce fin dall’inizio e non tutte le sessioni di lavoro risultavano soddisfacenti. Nei giorni fortunati le note sembravano prendere forma e arrivare da sole alle dita di Mike, nelle corde vocali di Dougie o in quelle della sua chitarra. Era come se la musica fosse rimasta sospesa per aria fino a un attimo prima di essere inventata, sul soffitto dello studio, in attesa di essere chiamata a materializzarsi nella misteriosa magia dell’invenzione artistica. In altri giorni nonostante l’impegno l’unica vera scintilla nella stanza veniva dall’accendino di Mike quando innervosito decideva di fumarsi una sigaretta.
E Sampei era lì con un’arietta strafottente, lì sui tasti bianchi e neri, la faccia nel sole e il sorriso di sale di un bianco abbagliante. Era lì e sapeva già tutto, sapeva come sarebbe finita la storia di quella sigla e se ne stava tranquillo con le lunghe gambe incrociate nella posizione del loto, seduto tra un fa diesis e il mi bemolle dell’ottava superiore, in un silenzio perfetto, gli occhi che guardavano oltre il filo di nailon teso dal mulinello della canna fino al filo dell’orizzonte sul mare, perso in un altro paese del mondo, un altro luogo in cui tentare un nuovo record, l’impossibile. Per tutti ma non per lui.
Nel primo giorno di lavoro sulla sigla del ragazzo pescatore passavano le ore e i desideri di Mike e Dougie rimanevano impigliati nella rete del nulla. Le armonie risultavano sciatte, anonime, già sentite. E ogni abbozzo di melodia della strofa o del ritornello faceva pensare a una barca che tentava di lasciare il porto con l’ancora incagliata tra le pietre e la sabbia del fondale. Non restava altro che essere sinceri con se stessi come ogni volta di fronte a una impasse creativa, riconoscere i propri limiti, salutarsi e darsi appuntamento per l’indomani.
Alla sera Mike rimasto solo mise di nuovo in azione il registratore mentre Dougie su un divano dall’altra parte di Roma riascoltava la copia in cassetta di quello che aveva salvato del lavoro del mattino. Krystal, la più piccola dei suoi figli – aveva allora sei anni e frequentava la prima elementare – lo interrompeva cercando di attirare la sua attenzione perché aveva qualcosa di molto importante da fargli sapere. “Papà, papà! Oggi a scuola ho detto a tutti che mio padre è quello che canta Candy Candy! E un bambino mi ha risposto: Sì! Davvero? …e il mio è quello che fa Mazinga!”. Dougie scoppiò in una delle sue straordinarie risate e stringendo Kristal tra le braccia si convinse che il giorno dopo a casa di Mike avrebbe preso all’amo le note giuste per fare di “Sampei” un’altra sigla di successo.
Era la seconda metà di maggio del 1982 e non avevamo dovuto vincere nessuna gara per la sigla di Sampei. Mike e Dougie come autori e i Rocking Horse come interpreti erano ormai per la RCA sinonimo di prodotto di alta qualità realizzato a basso costo, e io come paroliere mi ero conquistato la fiducia di Olimpio per i risultati e per il rispetto dei tempi di consegna.
Una squadra affidabile, anzi possibilmente più squadre e più gruppi di lavoro: questo cercava Olimpio per seguire la nuova strategia di Mario Cantini, responsabile delle edizioni e dell’etichetta “Original Cast”.
Nata per le colonne sonore dei film, la “Original Cast” diventò anche il marchio di fabbrica delle sigle dei cartoni, delle commedie musicali, delle telenovele e degli artisti emergenti. Per capire come e perché la RCA aveva deciso di produrre musica per le serie animate giapponesi occorre fare qualche passo in dietro e ripercorrere alcuni momenti delle storie personali di Anselmo Natalicchio, scomparso a soli sessant’anni nel 1994, e di Olimpio Pertossi. Musicisti entrambi, erano cresciuti artisticamente negli Stati Uniti il primo e in Brasile il secondo prima di diventare stretti collaboratori di Mario Cantini.
Anselmo, già componente del coro del maestro Alessandroni, era sbarcato un bel giorno in America e lì aveva deciso di stabilirsi lavorando come contrabbassista in diverse formazioni musicali. Diventò un nomade del jazz e della musica leggera e frequentando teatri e pub, locali d’avanguardia e night club esclusivi si era creato una fitta rete di conoscenze tra gli artisti e i produttori di ogni parte del mondo. In più aveva conosciuto con notevole anticipo il fenomeno dei cartoon e delle telenovelas. Al suo ritorno in Italia voltò pagina e accettò l’offerta della RCA che gli propose di continuare a far musica smettendo i panni del solista per quelli del manager. Proprio lui grazie alle amicizie americane rese possibile l’accordo commerciale tra la multinazionale del disco e due delle più importanti case di produzione e importazione di cartoon, la ITB e la PAT.
Olimpio arrivava invece da Rio de Janeiro. Là era vissuto dai cinque ai diciassette anni respirando il samba a ogni angolo di strada, suonando il sax contralto in una banda e formandosi sotto la guida severa del padre violinista, che lo portava con sé negli studi di registrazione dove si realizzavano i doppiaggi e le colonne sonore dei cartoni animati brasiliani e americani. Non fu dunque un caso che nel momento dell’invasione dei cartoni giapponesi Olimpio fosse il più preparato tra i musicisti e i produttori italiani per affrontare quel fenomeno.
Altro collaboratore della squadra che produsse le sigle più belle degli anni ’80 era Vincenzo Gioieni. Sassofonista, pianista, cantante e compositore Gioieni, in arte Vingioi, approdò anche lui alla RCA dopo aver girato il mondo, e in particolare il Sud America, con la sua orchestra. Nella maggior parte dei casi gli autori delle sigle, anche i più geniali, non si preoccupavano di elaborare gli spartiti musicali per la stampa. Toccava quindi a Gioieni mettere nero su bianco tra i righi del pentagramma le musiche fissate su nastro dagli autori, spesso solo con voce e chitarra o pianoforte. Tra uno spartito e l’altro Gioieni compose “Coccinella”, di cui io scrissi il testo, che fu interpretata da “I Cavalieri del Re” di Riccardo Zara nel 1984.
Contando sulle pubbliche relazioni di Anselmo Natalicchio Cantini decise di produrre le sigle musicali e ne affidò la realizzazione a Olimpio, spiegandogli che non essendoci garanzie sull’esito commerciale dell’operazione avrebbe dovuto farcela con un budget molto limitato. E se i risultati non fossero arrivati, tanti e subito, si sarebbe fatta rapidamente marcia in dietro.
Olimpio doveva dunque considerare anche il fattore tempo. Con un budget ridotto all’osso tre giorni al massimo dovevano bastare. Studio di registrazione, orchestrali, coristi, tecnici del suono, recordisti, strumentazione: tutto aveva un costo e ogni ora in più assottigliava le risorse. Per sua fortuna la RCA era anche un grande laboratorio di ricerca dove si mescolavano vecchie e nuove tendenze. Negli studi e lungo i corridoi potevi incontrare mostri sacri del pop e del cantautorato romano in mezzo a decine di giovani neofiti con tanta voglia di arrivare. Ennio Melis, direttore generale, invitava i suoi collaboratori a seguire con attenzione i nuovi talenti e con altrettanta insistenza ricordava loro che anche tra i meno giovani che stentavano a raggiungere il successo o tra quelli tornati nell’ombra dopo un breve periodo di notorietà poteva nascondersi un grande artista in attesa di essere rivelato e messo alla prova.
Olimpio cercò fin dall’inizio artisti e autori sensibili, di poche pretese e di molto talento possibilmente già uniti in un gruppo, autosufficienti in ogni fase della realizzazione di un brano e magari disponibili a lavorare con altri senza rivaleggiare in personalismi che si sarebbero tradotti in perdite di tempo e denaro. Le grandi firme della canzone, interpreti, autori e musicisti che avrebbero garantito un prodotto di alta qualità erano inavvicinabili perché costosi e perché non avrebbero accettato di accostare il proprio nome a un tipo di musica considerato quasi da tutti di serie B. Con qualche eccezione che mi piace ricordare: Franco Migliacci ad esempio, pur essendo – insieme a Mogol – il più celebre e stimato dei parolieri-poeti italiani, scelse di dedicarsi con divertimento anche al mondo delle sigle dei cartoni giapponesi.
Olimpio Pertossi accettò la sfida e la vinse seguendo i suggerimenti di Ennio Melis e rispettando i vincoli dettati dall’Editore. I Rocking Horse, i Superobots, i Cavalieri del Re di Riccardo Zara, le Mele Verdi di Mitzi Amoroso e i fratelli Balestra erano i gruppi ai quali si affidava, a volte saltando il meccanismo del concorso, perché avevano tutto il necessario: professionalità, economicità e velocità di realizzazione. Senza dimenticare l’aspetto che più di ogni altro determinò l’inaspettato successo di quelle canzoni e la loro longevità: il sound e lo stile musicale. Il giovane produttore venuto dal Brasile ascoltava decine di provini al giorno cercando brani non preconfezionati sui gusti presunti dei bambini e che fossero in grado di competere con le canzoni dei ragazzi più grandi e degli adulti. Una ricetta elaborata seguendo l’istinto e la passione innata per una musica di qualità capace di toccare il cuore.
E a proposito di cuore, fu la risoluzione di una questione sentimentale a favorire la nascita della musica di “Sampei”. Due settimane prima dell’incarico Mike Fraser aveva rotto con la sua ragazza. Colpa della gelosia. Non sempre la malinconia e i tormenti d’amore favoriscono l’ispirazione, anzi spesso accade il contrario e può succedere che ci si avviti per giorni sugli stessi pensieri alla ricerca di un perché, di qualcosa che spieghi come mai siamo riusciti a litigare furiosamente proprio con la persona che amiamo e che desideriamo più di ogni altra. E a furia di tornare sugli stessi ragionamenti senza trovare risposte si gira in tondo come in un labirinto dove le voci e le emozioni della vita non arrivano più, mentre si resta prigionieri del nostro piccolo o grande dolore. Qualcosa di simile aveva imbrigliato la fantasia e le mani di Mike sulla tastiera del piano Fender tra note e accordi che non riuscivano a prendere il largo. Era quasi notte quando squillò il telefono. “Hello!”. Era lei. E finalmente fecero pace.
Quando all’indomani mattina Dougie si presentò con la dodici corde Mike stava provando alcuni passaggi armonici. Le dita saltellavano sui tasti ritmando la felicità ritrovata da poche ore e la melodia arrivò, spumeggiante come la tavola di un surfista sulle onde dell’oceano.
Rompere il silenzio, superare l’inquietudine del pentagramma bianco, vedere con gli occhi della mente ciò che si vuole esprimere con uno strumento o con le parole tracciando nell’aria scenari, situazioni, persone e cose, lasciarsi andare scivolando nell’invenzione, cadere in trance e accorgersi che tutto è facile, la strofa, il ritornello e lo special. In quei momenti Mike e Dougie erano come fili di rame attraversati da brevi e intensi lampi d’energia. Mani che suonavano, scrivevano e raccontavano qualcosa di esistente che doveva solo essere scoperta.
Rivedendo gli appunti presi in RCA durante la visione di “Sampei” sono rimasto sorpreso per la ricchezza di notizie, riferimenti e particolari che avevo annotato sul simpatico ragazzo pescatore dalle orecchie a sventola. Forse in quel pomeriggio di fine maggio 1982 Olimpio era meno incasinato del solito e aveva più tempo da dedicarmi e quindi lasciò scorrere la videocassetta finché non dissi che bastava; o forse preso da altri impegni accese il videoregistratore e se ne tornò in ufficio a sbrogliare la matassa delle scadenze che lo incalzavano. Erano arrivate le telenovelas e in quegli stessi giorni il trio Cantini-Natalicchio-Petrossi metteva in produzione le sigle di “Agua Viva” e “Ciranda de pedra”. In più c’erano i contratti per altri cartoni e telefilm: “Il Mago Pancione”, “Super Dog Black”, “Arrivano le spose”, “Doraemon”, “Mimì e le ragazze della pallavolo”. Incontrare gli autori, spiegare il progetto, decidere se indire o no uno dei famigerati concorsi per poi ascoltare un gran numero di provini, far scrivere i testi, fissare gli studi, affittare gli strumenti, elaborare i preventivi di spesa, concordare i tempi di consegna e fare anche i conti con le agitazioni sindacali per il rinnovo del contratto nazionale. Questa è solo una parte della routine che aspettava Olimpio ogni mattina dopo aver varcato il cancello di via S. Alessandro e dopo una rapida incursione al bar.
In più c’era l’altra musica, quella degli artisti che andavano a San Remo o che anche senza l’aiuto del festival speravano di salire ai piani alti della Hit Parade. Altre canzoni, altri provini da ascoltare, selezioni, concorsi, appuntamenti e pile di cassette sulla scrivania del mio amico produttore e musicista. Di tanto in tanto c’ero anch’io a fare anticamera dietro la porta del suo ufficio con un nastro pieno delle mie speranze. Anche due ore d’attesa per vedere svanire l’illusione in poco più di cinque minuti, il tempo di stringersi la mano, di avviare il registratore e lasciar scorrere la cassetta fino alla fine di un brano che mi era sembrato bellissimo e che forse non lo era prima di tornarmene a casa con un po’ di amarezza. E c’erano anche Dougie e Mike che andavano a trovare Olimpio con la loro piccola valigia dei sogni. E un bel giorno gli fecero ascoltare “Thelephone Song”, un pezzo di un fascino particolare fin dall’introduzione. Poteva essere un successo mondiale. Olimpio lo spedì al manager di Nikka Costa, la bambina prodigio di “On my one”, ma non successe nulla e ancora oggi nessuno di noi saprebbe spiegare perché mai un brano che dopo tanti anni conserva tutta la sua freschezza e originalità non abbia avuto la fortuna che meritava e resti ancora inedito e sconosciuto.
Sogni, tanti sogni. Nella nostra vita, nelle canzoni, in radio, in televisione, nei cartoni animati, nei telefilm, nei cuori delle ragazze o delle giovani mamme che si litigavano il telecomando con i fratelli più piccoli o con i figli per seguire gli episodi di “Dancin’ Days” e delle “Charlie’s Angels”. Sogni per tutti i tifosi della nazionale di calcio che stava per volare in Spagna per il dodicesimo campionato del mondo, sogni di manager rampanti che inseguivano successo e guadagni facili nell’Italia euforica prima di tangentopoli, sogni di Joseph Gilles Henri Villeneuve frantumati nell’urto fatale tra la sua Ferrari e un terrapieno a bordo pista sul circuito di Zolder in Belgio alle 13,52 dell’8 maggio, sogni rinnovati in milioni di coppie sterili alla notizia della nascita del primo bimbo in provetta, sogni di pace il 12 giugno per 750.000 manifestanti che sfilarono a New York contro le armi nucleari uniti idealmente a tutti gli uomini e le donne di buona volontà del mondo, sogni di sovranità sulle isole Falkland del generale argentino Leopoldo Galtieri schiacciati dall’esercito inglese di Margaret Thatcher il 14 giugno dopo tre mesi di guerra e quasi mille morti e duemila feriti.
Il 16 giugno i Rocking Horse iniziarono a registrare “Sampei” e “Super Dog Black”. Lo studio era quello di “Mysha”, il Telecinesound, e stava in via Muggia nel quartiere Prati, non lontano dalla Balduina dove abitavamo io e Mike. La vicinanza mi consentì di seguire il lavoro con più assiduità del solito. Mi sentivo fortunato e gratificato: due miei testi stavano per entrare contemporaneamente in un 45 giri RCA, lato A e lato B.
Mentre Dougie e compagni ultimavano la base io in regìa cercavo di eliminare una ripetizione sull’attacco della seconda parte. Non mi andava proprio ma dovevo farlo. Se c’era una cosa che detestavo era il dover cambiare una sola parola di un testo che funzionava. Avendone avuto il tempo avrei preferito riscrivere tutto. Mi veniva il panico, forse anche perché quello del paroliere non era mai stato il mio mestiere ma un ripiego in attesa di tempi migliori. Era un’operazione a incastro, dovevo togliere un pezzo che combaciava perfettamente e sostituirlo con uno nuovo che continuasse a legare con gli altri. Anche un brano semplice come “Sampei” richiedeva la creazione di un’atmosfera e di un mondo capaci di suscitare emozioni che non si potevano riprodurre a comando. Così, se mi chiedevano di cambiare una parola, non avendo il mestiere o la penna facile come altri autori, cominciavo a sudare freddo e a rimpiangere di aver voluto restare a tutti i costi nel bel mondo della canzone.
Alla fine una lampadina si accese o qualcuno strofinò non visto la lampada del genio e “Ma che sarà… pescecane, spada, baccalà” andò a sostituire “Abboccherà…” che non doveva ripetersi. E tutti, cioè Dougie e Douglas Meakin, andarono a cantare felici e contenti! Però qualcosa doveva essermi sfuggito. Mi ero distratto, preso com’ero dalla ricerca delle fatidiche quattro sillabe, e non capivo perché ogni volta che Dougie arrivava alla frase “Amica tua: una canna fatta di magia…” strabuzzasse gli occhi e gonfiasse le guance fino a incespicare con la voce costringendo il fonico a ripetere la registrazione. Ma il fatto più surreale era che Olimpio invece di arrabbiarsi rideva divertito allargando le braccia e scuotendo la testa.
Fu il fonico, Aldo Amici, tassinaro di secondo lavoro, ad accorgersi del mio stupore e a darmi la sveglia: “A sor Lucio, ma tu… te le fai le canne quanno scrivi?”. Le canne… la canna fatta di magia… c’ero arrivato finalmente anch’io. La fantasia di Dougie e Olimpio aveva trasformato la magica canna acchiappatutto di Sampei in un lunghissimo super spinello, una canna fatta di magia, appunto.
Il 21 giugno fu il quarto e ultimo giorno di lavorazione. Lo studio era prenotato dalle dieci di mattina all’una e mezza di notte e tutto il tempo fu dedicato alla rifinitura delle voci e al missaggio di “Sampei” e di “Super Dog Black” che avevano viaggiato in parallelo a parte la versione strumentale di “Super Dog Black” che necessitò di altri passaggi e accorgimenti armonici. Olimpio era riuscito a terminare l’ennesima fatica editoriale rispettando il budget di spesa ed evitando gli scioperi per il rinnovo del contratto. Erano nate due nuove sigle tivù mentre al di là del canale della Manica nasceva il primogenito di Diana e Carlo d’Inghilterra, Sua Altezza Reale William Principe del Galles.
E come ricordato nel capitolo dedicato a “Candy Candy” i quattro sudditi, Douglas Albert Meakin, Michael Brandon Fraser, Dave Sumner e Mick Brill, tutti in astinenza alcolica, brindarono al futuro erede al trono con quattro candidi bicchieri di latte.